Il tentativo: struttura della condotta e dolo; sua configurabilità nei delitti omissivi propri e impropri

La questione sottoposta all’attenzione dello scrivente impone preliminarmente di definire il reato tentato e non consumato, previsto dal c.p. come quella condotta del soggetto agente volta, in modo non equivoco, alla consumazione di un determinato reato poi non realizzato o per ravvedimento dell’agente o per il sopraggiungere di forze esterne che ne hanno impedito la consumazione.

Il legislatore indica, con formula aperta, gli atti affinché possano ricondursi alla fattispecie del tentativo (idonei e non equivoci) per distinguerli dalla mera rappresentazione mentale o dal semplice proposito richiedendo quindi, al fine della valutazione della condotta, una indagine concreta sull’azione del reo perché sia univocamente riconducibile alla volontà di consumare un reato (es. il fermo di un soggetto munito di passamontagna, armato ed in possesso di una piantina della banca innanzi alla quale si era appostato). L’ipotesi del tentativo presuppone, ontologicamente, l’elemento soggettivo del dolo in capo all’agente ed è quindi applicabile ai soli misfatti o delitti, non essendo ipotizzabile la perseguibilità del tentativo nei reati colposi in quanto la loro consumazione prescinde dalla rappresentazione e volontà dell’evento in capo al reo.

In base a tale sintetica ricostruzione potrebbe escludersi il tentativo per l’ipotesi del dolo eventuale ogni qualvolta, cioè, l’agente abbia potuto ragionevolmente rappresentarsi e prevedere l’evento reato quale conseguenza della propria condotta ma non l’abbia voluto e quindi mentalmente escluso (ipotesi di una competizione fra veicoli conclusasi con un grave incidente cui conseguiva il coma di uno dei passeggeri).

Una parte della Giurisprudenza tende quindi ad allinearsi alla dottrina maggioritaria richiedendo, ai fini della integrazione del tentativo, un dolo pieno ove l’agente aveva pianificato la propria condotta al precipuo scopo di concludere un determinato reato.

Nei delitti omissivi propri (es. omissione di soccorso) la norma impone una condotta che invero viene disattesa dal soggetto tenuto e l’omissione in sé, a prescindere dall’evento penalmente rilevante. Chi procura un incidente con feriti e scappa, nel momento della fuga commette la violazione del precetto che gli imponeva di prestare soccorso o chiamare i soccorsi ma se, durante la fuga il soggetto acquista lucidità e torna sul luogo dell’incidente chiamando i soccorsi potrà essere punito per l’ipotesi del tentativo? La risposta al quesito implica la valutazione del momento consumativo del reato omissivo che è consumato nel momento in cui la norma che impone una determinata condotta è disattesa. Nell’esempio precedente, al momento della fuga, il soggetto aveva già consumato l’illecito penale e la condotta successiva potrà essere valutata quale ravvedimento (recesso attivo) al fine di una mitigazione della pena.

La traccia chiede infine la trattazione del tentativo nell’alveo dei reati omissivi impropri, ovvero di quei reati commessi da colui che, rivestendo una posizione di garanzia, è tenuto per legge o per contratto ad evitare un evento (esempio il medico che omette la manovra di rianimazione in un paziente colpito da infarto procurandone la morte). Per le ragioni analizzate nella disamina dei reati omissivi propri, la consumazione dell’illecito è individuabile nel momento in cui l’agente è chiamato ad evitare un evento e non si attiva per scongiurarne il verificarsi sicché si esclude che sia ipotizzabile il tentativo qualora, pur in assenza della manovra di rianimazione, non segua il decesso del paziente poiché l’omissione, di per sé penalmente irrilevante in quanto non oggetto di uno specifico precetto, non ha procurato l’evento.

Avv. Leonardo Torsani
Avv. Carlo Biagioli
Avv. Antonio Belloni

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