L’istituto giuridico dell’unione matrimoniale è regolato dalla legge sulla famiglia del 1986 ove trova positiva regolamentazione la sequela di diritti e doveri dei coniugi tanto in costanza di matrimonio quanto successivamente alla sua cessazione. Il legislatore ha previsto due regimi patrimoniali che, all’atto del matrimonio i nubendi possono liberamente scegliere e possono mutare nel corso vita comune: la comunione dei beni e la separazione dei beni.
I regimi sono opponibili ai terzi in quanto espressamente menzionati nell’atto di matrimonio e nell’ipotesi di comunione gli acquisti effettuati singolarmente da ciascun coniuge in costanza di matrimonio ricadono nella comunione così come i risparmi accumulati da ciascuno nell’esercizio della propria arte o mestiere (comunione de residuo). Non ricadono invece nella comunione i beni personalissimi pervenuti a seguito di successioni mortis causa o attraverso donazioni effettuate in favore di uno solo dei coniugi, né i risparmi o i beni già detenuti da ciascun coniuge anteriormente al matrimonio.
Qualora i coniugi optino, invece, per il regime di separazione dei beni, ciascuno resterà proprietario esclusivo dei beni acquistati in costanza di matrimonio nonché dei redditi, delle attività di impresa e dei risparmi formati durante il coniugio.
I coniugi resteranno in ogni caso solidalmente responsabili per le obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, per la soddisfazione delle esigenze familiari.
Date queste brevi premesse, entrando nel merito della trattazione, deve evidenziarsi che con la domanda di separazione personale di coniugi il Commissario della Legge dispone in ogni caso il mutamento della comunione dei beni in regime di separazione sicché gli acquisti, i redditi prodotti ed i risparmi accumulati dal momento della separazione (individuabile nella comparizione dei congiunti innanzi al Giudice per la conferma della volontà di separarsi) resteranno in capo a ciascun congiunto.
Le problematiche patrimoniali di maggior interesse si concentrano quindi sulle unioni coniugali in comunione dei beni ove ciascun coniuge può avere interesse allo scioglimento della comunione per rientrare in possesso della quota dei beni di propria spettanza, ad esempio perché aveva investito tutti i propri risparmi per l’acquisto della casa coniugale e degli arredi.
Astrattamente ciascun coniuge può chiedere lo scioglimento della comunione e, tuttavia, tale diritto incontra taluni limiti, ad esempio qualora la casa famigliare sia assegnata ad un coniuge in quanto collocatario della prole, il provvedimento di assegnazione vincola la circolazione dell’immobile e la relativa vendita in quanto imprime un vincolo di destinazione sul bene volto a soddisfare le esigenze abitative della prole fino all’autosufficienza economica. O ancora, qualora siano disposti contributi economici per il mantenimento del coniuge e/o dei figli – e vi sia timore di insolvenza del coniuge onerato- il Commissario della Legge può disporre il sequestro su parte dei risparmi depositati sul conto corrente bancario ovvero imporre una cauzione. Detta limitazione all’uso dei beni coniugali è giustificata dal dovere di solidarietà familiare, costituzionalmente imposto (art. 12) che richiede ai coniugi, anche successivamente alla crisi coniugale, l’onere di provvedere all’assistenza materiale del coniuge debole e della prole. Si può quindi affermare che il contratto matrimoniale continua a produrre effetti vincolanti anche successivamente al suo scioglimento siccome imposti alla L.F. in ossequio al dovere solidaristico di responsabilità familiare di colo che scelgono di costituire una famiglia.
Superata l’analisi sommaria dei vincoli che potrebbero essere ostativi allo scioglimento puro e semplice della comunione con consequenziale divisione dei beni in natura o mediante liquidazione occorre interrogarsi sulle conseguenze della crisi nell’ambito dell’unione civile. Il legislatore con la Legge del 2018 ha inteso regolare le unioni fra persone dello stesso sesso o di sesso diverso che non intendono ricorrere al matrimonio. Il regime patrimoniale degli uniti civilmente, salva diversa opzione, è quello della separazione dei beni. La legge del 2018, pur riconoscendo il reciproco obbligo di assistenza morale e materiale delle parti unite civilmente, non fa integrale richiamo alla L.F., limitandosi a ritenere operative le sole norme riguardanti la comunione dei beni. Ne consegue che, successivamente alla cessazione dell’unione civile, dichiarata anche su istanza unilaterale di una sola parte, gli uniti ritornano ad essere singoli ed autonomi soggetti giuridici non più astretti da un vincolo solidaristico. Una lettera così rigorosa dell’istituto, tuttavia, pare stridere con la nozione stessa dell’unione civile che è definita per legge una comunità familiare e quindi in contrasto con l’art. 12 della dichiarazione dei diritti che impone un dovere di solidarietà anche successivamente alla crisi familiare. La disposizione costituzionale impone tutela all’istituto familiare, ritenuto una formazione sociale essenziale per il sereno sviluppo della persona. Una lettura costituzionalmente orientata della Legge 2018 sulle unioni civili imporrebbe quindi una valutazione sulla legittimità (o meno) delle norme nella parte in cui non richiamano le norme L.F. sul dovere di assistenza materiale dei coniugi successivamente alla crisi della unione poiché se da un lato è vero che il legislatore ha voluto regolare con un modello più snello le unioni civili, differenziandole dal matrimonio, dall’altro entrambi gli istituti sono diretti a regolare un medesimo fenomeno sociale, quello della famiglia. Diviene allora discriminatorio e irragionevole per le coppie omosessuali che non possono liberamente scegliere l’alternativa fra matrimonio e unione civile, un trattamento disomogeneo fra identiche situazioni perché dà vita ad un modello famigliare con più tutele (quello fondato sul matrimonio) rispetto a quello neonato delle unioni civili.
Avv. Leonardo Torsani
Avv. Carlo Biagioli
Avv. Antonio Belloni